A cura di lidia B
Ricordo che, quando ero bambina, alla scuola elementare si portava già il terribile grembiulino nero ed io, che ero l’ultima di quattro figli, indossavo spesso i vestiti dismessi dei miei fratelli. Quando mia madre mi regalò la prima camicetta “femminile”, le chiesi confusa come mai si abbottonasse al contrario, essendo abituata all’abbottonatura maschile. All’epoca, mia madre mi abituò alla normalità della condivisione e del riuso degli abiti dismessi. In questo modo, oltre a risparmiare sull’acquisto di capi nuovi che sarebbero stati inevitabilmente distrutti durante i giochi all’aperto, mi trasmetteva un altro insegnamento: accettare gli altri per quello che sono, non per quello che indossano e così io, sapevo che chi mi accoglieva senza giudicare toppo le camice maschili, apprezzando qualcosa che andava oltre l’elemento estetico. Eravamo comunque bambini, ed i bambini, alcuni valori ed insegnamenti, non li hanno innati e non li acquisiscono immediatamente. Infatti, già in età scolare si tendeva ad individuare la provenienza e l’estrazione sociale dei coetanei attraverso i vestiti che si intravedevano sotto il grembiule. A volte questa capacità si traduceva in azioni anche un po’ crudeli nella suddivisione in classi e categorie, nell’esclusione o inclusione di determinati compagni nel gruppo di amicizie.
Ho l’impressione, ripensando a quei vestiti che spuntano dai grembiuli neri tutti uguali, quei sofisticati strumenti di divisione e di discriminazione, che oggi, per certi versi, non sia cambiato molto. Una volta erano i grembiulini, oggi sono le mascherine. Mi spiego. Questi presidi, più che proteggere le vie aree, (pare che invece siano dannose e servano a poco o nulla contro i virus – leggi qui), tendono a dividere le persone, creano categorie e discriminazioni tra chi segue le regole e chi vi si oppone, tra chi è più resiliente e chi meno, tra chi ha paura e chi no. Su questa discussione si sono succedute molte teorie, molte considerazioni. E’ stato suggerito, per esempio, che si potrebbe siglare la mascherina con un simbolo per mostrare che la si indossa solo perché costretti, in modo da farsi riconoscere da altri che hanno deciso di mostrare apertamente il proprio dissenso. L’idea di fondo mi sembra interessante ma il rischio che cela mi pare peggiore del vantaggio che offre.
Se io dissento apertamente ad un obbligo che ritengo violi la mia libertà dovrei fare in modo di non cedervi con un ragionamento pulito che non genera dissonanze. Siglare la propria mascherina crea un ulteriore e più sofisticato sistema di separazione, di categorizzazione, di difficoltà a comunicare ed accogliere chi pensa diversamente da me. Chi mi conosce sa la fatica che mi occorre per riuscire a sospendere ogni giudizio nei confronti di chi indossa la mascherina sempre e comunque, anche se solo in auto o in strade isolate. L’immediato istinto è quello di creare subito in me stessa un giudizio senza possibilità di appello: creduloni, paurosi, pecoroni.
Questo mio atteggiamento immediato, però, oltre che arrogante è scorretto e nasconde una disonestà di fondo che non è molto diversa dall’intuire le condizioni economiche di una famiglia spiando sotto il grembiulino del compagno di scuola.
Non si può sapere per certo ciò che un altra persona prova o pensa fino a che non glielo si domanda e questa è una verità inconfutabile.
Se vogliamo sopravvivere a questa pressione fortissima nel dividere la popolazione, nel mettere uno contro l’altro, nell’isolare chi non aderisce pedissequamente al pensiero imposto, è necessario ritrovare dentro noi stessi il valore della tolleranza, oltre che il desiderio di scoprire davvero ciò che gli altri pensano.
Se vogliamo superare questo flusso di informazioni che categorizza, isola ed aggredisce, questo susseguirsi di regole e divieti, è importante insegnare ai più piccoli l’importanza del gioco in gruppo, della collaborazione, la curiosità verso chi è diverso da noi per colore, religione, lingua o paese. La ricchezza della diversità, la forza della tolleranza, non si traduce nel subire le aggressioni esterne, ma in un atteggiamento più collaborativo e più aperto, pronto a comunicare in maniera significativamente più positiva e più interessante.
Non è necessario contrassegnarsi per incontrarci e comunicare, siamo tutti esseri umani, uomini, donne e bambini. Apparteniamo tutti alla razza umana e abbiamo tutti una storia, da raccontare. Delle paure, dei valori e dei desideri dietro qualunque maschera e qualunque abito.
Sospendiamo ogni giudizio.
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